CasaPaese

Snoezelen

LA TECI IN PILLOLE

Quando la memoria sfuma, resta la pelle a ricordare.

C’è un momento in cui chi ami smette di riconoscerti, e inizia un viaggio silenzioso in un luogo che tu non puoi raggiungere. I gesti diventano confusi, le parole si spezzano, lo sguardo si perde. E tu, che resti, ti chiedi dove sia finita quella persona che conoscevi così bene.

Spesso li si chiama “cose”. Perché non parlano più come prima, non decidono, non rispondono come ci aspettiamo. Ma dentro quel silenzio agitato, dentro le urla che sembrano senza senso, c’è ancora una voce che chiede ascolto. È il linguaggio del corpo, dell’emozione pura, che cerca un varco nel muro dell’incomprensione.

Chi vive la demenza non sa spiegare cosa stia accadendo. Ma sente. Sente tutto. Il tono di una voce, la durezza di uno sguardo, il peso di un gesto frettoloso. La mente si allontana, ma il cuore resta vicino, impigliato nei dettagli più piccoli, nei legami più profondi.

In quel mondo rovesciato, dove la logica non guida più il cammino, si può ancora costruire un ponte. Fatto di presenza, di tatto, di sguardi pazienti. Perché ogni anima, anche smarrita, ha bisogno di sentirsi accolta. E ogni corpo, anche se confuso, merita di essere trattato con dignità

Non sono cose. Sono persone che lottano per restare. E hanno bisogno che qualcuno resti con loro.

Nell’esperienza della Terapia Espressiva Corporea Integrata, il linguaggio cambia forma. Le parole cedono il passo al silenzio, e il silenzio si fa corpo, gesto, respiro. È un dialogo diverso, profondo, che non ha bisogno di spiegazioni: si insinua piano tra le pieghe dell’anima, dove il linguaggio verbale non riesce più ad arrivare. In quel luogo intimo e fragile, simboli e metafore prendono vita e diventano strumenti per dare senso a ciò che, in apparenza, sembra incomprensibile.

Con una persona malata di Alzheimer, o affetta da altre forme di demenza, non è possibile non comunicare. Anche quando tace, anche quando urla o si agita, anche quando non riesce più a parlare o a comprendere, sta comunicando. E se noi, come terapeuti o familiari, impariamo ad ascoltare con il corpo e con il cuore, possiamo entrare — senza invadere — in quel mondo che appare lontano, a volte ostile, altre volte imperscrutabile.

Non è facile. Serve delicatezza. Serve presenza. Significa stare a contatto, non solo fisico, ma profondo: essere lì davvero, in ogni senso. In quel “esserci”, nella sua forma più piena e autentica, c’è tutto il senso della relazione terapeutica. Non solo parole, ma uno sguardo, un respiro che si accorda, un tocco che accoglie. È così che si nutre il corpo — non solo di cibo, ma di ascolto, di calore, di attenzione.

Anche i comportamenti più difficili, quelli che ci spaventano o che non riusciamo a spiegare, non sono mai privi di senso. Sono segni, sono messaggi. Ogni gesto, ogni reazione è un piccolo universo emotivo che chiede di essere compreso, mai giudicato. Ed è lì che il metodo Teci — attraverso il corpo — prova a ricostruire un ponte tra due sponde lontane, cercando di riportare la comunicazione laddove la parola non basta più.

Comunicare, in fondo, significa condividere. E questo resta possibile anche quando la demenza sembra spaccare tutto, anche quando le distanze diventano abissali. A volte, bastano le parole giuste. Parole semplici, umane, vere. Parole che non spiegano, ma scaldano. Che non curano, ma accudiscono. Parole capaci di accogliere il dolore, anche quello che il paziente non riesce più a raccontare. Perché ci sono voci che sanno attraversare le tempeste emotive senza perdersi, restando accanto.

La demenza è un lento dissolversi.

Ma non è assenza. È una forma diversa di presenza, che chiede attenzione, che chiede amore. In quel vuoto che si crea, possiamo ancora trovare una speranza, un’attesa silenziosa, una possibilità di relazione vera.

Ma per farlo dobbiamo disimparare i linguaggi che conosciamo. Dobbiamo uscire dai deserti emotivi cui la sofferenza ci ha abituati. Solo così la cura può iniziare. Solo così possiamo davvero ascoltare con il cuore e parlare non con le nostre parole, ma con quelle che l’altro è pronto a ricevere.

E forse, in questo silenzio condiviso, potremo imparare a usare parole che non fanno rumore, ma che sanno salvare.

Le parole curano. Ma non sempre servono. A volte basta esserci.

Casa Paese Cicala Catanzaro, Sala delle Stelle, Amelia (oss) e Aiello
Casa Paese Cicala Catanzaro, metodo Teci, Elena Sodano ed Anna
Casa Paese Cicala Catanzaro, Sala delle Stelle, Amelia (oss) e Aiello
Casa Paese Cicala Catanzaro, metodo Teci, Elena Sodano ed Anna

Stare a contatto con una persona affetta da Alzheimer o da altre forme di demenza non significa solo toccarla. Significa esserci davvero. Con tutto ciò che si è. Significa offrire presenza piena, ascolto che passa non solo dalle orecchie, ma dalla pelle, dallo sguardo, dal cuore. È una relazione che va oltre il linguaggio tradizionale, fatta di silenzi che parlano e gesti che raccontano.

Ogni movimento, ogni espressione, ogni sussulto del corpo è un frammento di comunicazione. Anche ciò che ci appare caotico o incomprensibile — una reazione violenta, un pensiero sconnesso, uno sguardo assente — non è mai privo di significato. Sono segni, sono richiami, sono forme di linguaggio che aspettano solo di essere accolte e comprese. Non sono schegge impazzite, ma mondi interi che si esprimono a modo loro.

Nel metodo TECI, quando la parola si dissolve o si perde, è il corpo che prende il timone. È lui a raccontare. È lui che conserva — spesso da solo — tutto ciò che la mente non riesce più a tenere con sé. Attraverso il corpo, si cerca di riattivare un dialogo affettivo che non ha bisogno di frasi articolate, ma solo di ascolto profondo e sincero.

Comunicare non è mai impossibile. Anche quando la diagnosi fa paura, quando sembra che tutto si frantumi, quando la distanza tra chi sta male e chi resta vicino sembra incolmabile. Le parole — se scelte con cura, se dette col cuore — possono ancora fare molto. Possono riaccendere una luce, lenire un dolore nascosto, diventare rifugio.

Ma bisogna saperle usare. Non quelle parole vuote, tecniche, che sembrano giuste solo per chi le pronuncia. Bensì parole che si inchinano al silenzio, che sanno farsi leggere nello sguardo, che si posano leggere, senza ferire. Parole che accolgono. Che non giudicano. Parole che salvano.

Ecco, forse è proprio questo che dovremmo imparare: ad adottare parole silenziose. Quelle che non fanno rumore, ma che sanno arrivare dove c’è bisogno. E provarci, sempre. Anche quando sembra inutile.

Quando il corpo, da veicolo, diventa ostacolo

Viviamo in un mondo che corre, che premia chi riesce, chi performa, chi dimostra. E in questo contesto, la vecchiaia, la disabilità, il rallentamento non trovano più spazio. Il vero problema, allora, non è solo la malattia in sé, ma come permettere a chi ne è colpito di stare bene nonostante tutto. Nonostante la perdita, nonostante lo smarrimento.

Con il tempo, il corpo della persona con demenza sembra farsi sempre più invisibile. Si ritrae, scompare piano. Eppure, è proprio attraverso quel corpo che continua a chiedere, a cercare. Spesso con forza, con insistenza, con gesti che a noi sembrano strani, ma che per loro sono istinto, necessità, sopravvivenza. In quei momenti, il terapeuta diventa qualcosa di antico, di profondo. Una figura familiare. A volte una madre, che quel corpo cerca disperatamente: per essere riconosciuto, per sentirsi ancora qualcuno, per ritrovare i gesti perduti.

Nel metodo TECI, quel corpo non è mai un limite. È un corpo intenzionale, che si muove, che occupa spazio, che cerca l’altro. Anche quando le parole sono spezzate o stravolte, c’è sempre un tentativo di relazione. C’è un linguaggio che prende altre forme — immagini, simboli, metafore — e che chiede al terapeuta di mettersi in ascolto, con attenzione, con rispetto. Perché in quel corredo simbolico si nasconde qualcosa di prezioso: la verità emotiva della persona.

Vedere con la mente, abitare il corpo

Casa Paese Cicala Catanzaro, metodo Teci (2)

Nel metodo TECI, ciò che conta non è soltanto ciò che si vede, ma ciò che si sente attraverso l’immaginazione. Le attività proposte si fondano su immagini che il terapeuta evoca con delicatezza, con l’intento di accendere una risposta simbolica e corporea. Immagini che non servono solo a stimolare il movimento, ma a risvegliare la parte più profonda del sentire, laddove la mente non riesce più ad arrivare da sola.

È come se il corpo, attraverso l’immaginazione, cominciasse a ricordare chi è.

Con il progredire della malattia, l’identità si sfalda, il carattere cambia, i sentimenti si offuscano. E questo smarrimento interiore lascia un’impronta visibile anche sul corpo. I movimenti si fanno rigidi, la mimica svanisce, il passo si ripete in modo ossessivo. Ma sono soprattutto le mani a raccontare il dolore. Mani irrequiete che cercano, che tastano, che stringono tutto ciò che trovano, come se in quel gesto disperato volessero trattenere la realtà che scivola via. Mani che si portano alla testa, come a chiedersi: perché non funziona più?

Le braccia si stringono al petto, proteggendo quel poco che resta intatto. Le gambe quasi non esistono più, dimenticate, usate solo per “andare lì”, in un luogo che nemmeno loro sanno più spiegare. Il corpo perde la propria mappa. Non si sente più. Non si riconosce più. È come vivere dentro un involucro che non ci appartiene più, uno spazio vuoto e muto che non trasmette più emozioni, né le riceve.

Ma è proprio quel corpo, apparentemente vuoto, che il metodo TECI cerca di risvegliare. È lì, tra quei gesti incerti e quei silenzi profondi, che proviamo a restituire ai pazienti la possibilità di ri-percepirsi. Di ricordare, anche solo per un attimo, di essere vivi.

Nelle prime fasi della malattia, il corpo è rigido, lo sguardo fisso, i muscoli del viso serrati come se sorridere fosse diventato proibito. I movimenti sono lenti, timorosi, come se ogni passo fosse una domanda. E la voce, quando c’è, è sommessa, quasi sussurrata, come se le parole fossero un lusso non più concesso. Parlano solo se stimolati: un suono, un tocco, una luce possono diventare chiavi per aprire una porta socchiusa.

Poi arrivano le fasi più avanzate, in cui il corpo si muove, sì, ma in modo ripetitivo, incostante. Cantano, ma le frasi non hanno più senso. Si cullano, si dondolano avanti e indietro, le mani tamburellano, danzano in sincronia con vocalizzi confusi. Non c’è più consapevolezza, ma c’è ancora un’intensità emotiva. A volte ti abbracciano con tutta la forza che hanno, e in quell’abbraccio ti dicono: resta con me. Altre volte reagiscono con violenza, perché il dolore non trova altra via d’uscita.

Nello stadio più estremo, la vita sembra spegnersi del tutto. Gli occhi restano chiusi, i movimenti sono impercettibili, lo sguardo si perde nel vuoto. Eppure, anche allora, può accadere qualcosa. Anche lì, un’immagine, un gioco del “facciamo finta che…” può riaccendere una scintilla.

Perché l’immaginazione, a volte, arriva dove il corpo non riesce. Le immagini proposte diventano allora uno strumento potente: una trama invisibile che tesse insieme sensazioni, emozioni, memorie corporee. E anche quando il corpo non reagisce visibilmente, anche quando resta immobile, il paziente sta vedendo con la mente. Sta immaginando. Sta vivendo dentro di sé quel movimento che non può più compiere.

E questo, per chi sa osservare con sensibilità, è già un atto profondo di presenza. Un contatto. Una forma di espressione che va oltre ogni parola.

DATI BONIFICO

IBAN: IT20 R0760104 40000004 3620954
Intestato a: Fondazione Ra.Gi.

DONAZIONE SINGOLA O RICORRENTE

CON CARTA PREPAGATA, DI CREDITO O DEBITO